Il Creatore, tra gli altri doni, ci ha dato una facoltà straordinaria, unica tra i viventi: la capacità di indagare la natura e di meravigliarci di fronte ad essa. C’è in noi il desiderio innato di osservare, di conoscere, di spiegare non solo le dinamiche dell’universo, infinitamente grande o infinitamente piccolo che sia, ma anche e soprattutto il fenomeno che ci coinvolge tutti e che chiamiamo “vita”. Tuttavia, a causa delle limitazioni della nostra percezione spazio-temporale, ci accorgiamo che se possiamo disvelare alcune delle meccaniche del mondo fisico, ben poco ci è dato di comprenderne il significato e nulla del tutto se vogliamo rispondere alla domanda esistenziale: il “perché”.
Qui siamo come i bambini che iniziano a scoprire il mondo: siamo pieni di “perché” ma senza un genitore che ci aiuta a comprendere non siamo in grado di risponderci da soli: vita e morte, gioia e dolore sono parte integrante della esperienza umana, del ricco come del povero, dell’istruito come dell’ignorante, del buono come del cattivo, del generoso come dell’avaro.
Ci scopriamo impotenti ad indagare realtà che non riusciamo a mettere in un sistema di riferimento; non sappiamo quale sia l’unità di misura adatta, non abbiamo idea del metodo. Possediamo tutti una spinta congenita al trascendimento della conoscenza, non possiamo resistere al fascino dell’oltre che ci attira, ma ci è impossibile trovare luce e senso se non ci affidiamo al “Genitore” che amorevolmente ci aiuta.
La frustrazione del desiderio di conoscenza sui fondamentali ci trattiene sul lato per noi più congegnale e tuttavia in questo caso inutile: il metodo scientifico. Così sappiamo molto sulle dinamiche della natura fino a saper rendere ragione di alcune meccaniche della vita, ma non facciamo un passo che sia uno in direzione di un singolo “perché”.
Allora, al pari della volpe con l’uva acerba, cerchiamo di convincerci che il “perché” o non c’è, o non è così importante e ci dedichiamo ad altro. Soffocare però l’umano anelito naturale alla trascendenza è la più grande sconfitta che il nemico può infliggerci. Gesù ha da poco annunciato apertamente la sua passione: deve molto soffrire a causa dell’ostilità di chi era venuto a redimere. Pietro, che ragiona con lo stesso rigore di uno scienziato moderno, rimprovera Gesù; trova che quel destino per il Figlio di Dio sia assurdo e da evitare a tutti costi.
Non siamo troppo precipitosi ad indignarci con Pietro; egli è come un bambino che possiede una visione limitata del reale, meccanicistica, semplificata, cosa della quale il demonio si serve per confonderlo, infatti Gesù lo rimprovera: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Per comprendere la passione di Cristo, e qualsiasi sofferenza dell’innocente, è necessaria la via maestra della “esperienza”.
Dunque, con Giacomo e Giovanni, Pietro sale il monte e lì Gesù si trasfigura. Vesti bianchissime, la nube del mistero di Dio, Elia e Mosè, la Scrittura in dialogo con Gesù, la voce tuonante del Padre… di tutto questo ne abbiamo il resoconto, ma non l’esperienza in sé; quella è stata personale per i tre apostoli. In quel momento essi hanno potuto superare le limitazioni della natura, sono stati sollevati dal riduzionismo umano che semplifica ciò che non riesce a comprendere, si sono completamente dimenticati dello scandalo della passione annunciata e, sia pur per pochi istanti, hanno capito tutto. A noi resta la sintesi della loro escursione nel trascendente: “è bello per noi”!
In quella dimensione la vita viene sperimentata in tutta la sua bellezza; le contraddizioni del mondo rientrano; il mistero del male viene superato e l’enigma del “risorgere dai morti” possiede ora un contesto che, se pur non esaurisce la comprensione, ne contiene il senso. La trasfigurazione di Gesù è la porta della conoscenza, dove non dominano più il concetto e il metodo, ma a parlare è l’esperienza del regno di Dio.
Esperienza a quanto pare preclusa ai regni di questo mondo i quali non conoscendo la vera bellezza, si dedicano a ciò che possono misurare: territori, ricchezza, egemonia e si fanno perciò perpetuatori del non senso del dolore e della morte. La trasfigurazione di Gesù, cui abbiamo accesso nella fede ogniqualvolta preghiamo, celebriamo, mettiamo in pratica il comandamento dell’amore ci realizza come creature, illumina la nostra umanità, rimuove i limiti della nostra conoscenza, risponde a tutti i “perché” in sospeso e ci immerge nel “bello”.
A noi il compito di mantenerci nella prospettiva trasfigurata e chiamare quanti più possibile a vivere la stessa esperienza di Dio, nella quale il “brutto” non ha spazio e il male, anche il più estremo, viene spazzato via “come pula che il vento disperde”.