Il cristiano o lo è davvero, oppure sarebbe meglio per lui se non lo fosse. Non parliamo qui di “perfezione” o di virtù eroiche quanto di prendere sul serio il nome che porta. Tutti siamo soggetti alla fragilità, all’incostanza e quindi al peccato, per questo nella preghiera chiediamo continuamente perdono a Dio per le debolezze che ci assillano; ogni ora liturgica contiene un atto penitenziale, il Kyrie eleison, il Padre Nostro, persino ogni segno di croce contiene implicitamente la nostra volontà di conformarci al sacrificio di Cristo dal quale per vari motivi ci ritroviamo spesso distratti.
Questa è tuttavia la normale dinamica della vita cristiana: tensione esistenziale verso il Signore che ci salva e perciò in costante ripristino dalle deviazioni del cammino. Professare e vivere la fede in Cristo non parte dalla perfezione morale, anche perché se così fosse non potrebbe esistere un solo cristiano sulla terra, però, questo sì, vi tende ogni giorno e ogni momento della vita. È vero che il peccato contraddice le promesse battesimali; ogni mancanza lì per lì rovescia la professione di fede ci caratterizza, quasi affermassimo in quel momento “io non credo”, ma per il dono di misericordia che Dio ci ha dato in Cristo, il perdono non ci verrà mai negato, sempre che lo chiediamo con il cuore umile e contrito. Esistono infatti peccati che si strutturano, si normalizzano e si fissano nella coscienza senza che questa si accorga più della gravità di ciò che si fa.
Tutto questo è vero per tutti, ma è particolarmente grave per coloro cui è stato affidato un ministero nella Chiesa e per i consacrati. Le dure parole di Gesù rivolte a scribi e farisei sono di ammonimento anche a ciascuno di noi perché ci guardiamo dal “fare” le cose necessarie, ma con il cuore spento sul lato del Signore e acceso sull’amor proprio. Come scribi e farisei, definiti da Gesù “ipocriti”, ovvero “simulatori” di un sentimento religioso di fatto estraneo alla profondità del cuore, così anche noi siamo tentati di operare una sorta di semplificazione del Vangelo, il ridurlo ad un “fare” che, per quanto si tratti di cose buone, è assai meno impegnativo che la chiamata ad “essere”. Così ci si può ritrovare a compiacerci di noi stessi per una osservanza che Dio chiede soltanto in seconda istanza. Una simile osservanza esteriore, priva dello spirito che la deve animare, si deforma in un vano autocompiacimento: l’essere felici non perché siamo in armonia con il Signore, ma per l’ammirazione “della gente”. “Tutte le loro opere” dice Gesù dei farisei, le fanno per ottenere quella sensazione di superiorità sociale per la quale Dio viene reso di fatto uno strumento.
Come mettersi al riparo da questa insidia la quale non fa che adulterare il grande dono della fede? Spirito di servizio e umiltà. Va evitato con tutte le forze di “usare” Dio e il prossimo per il proprio appetito di soddisfazione, perché questo atteggiamento non si discosterebbe da quello di chiunque cerchi divertimenti e gioie a poco prezzo, ma con l’aggravante di una fede professata la quale rischia di non esistere proprio e procurare scandalo tra la gente. In questi giorni abbiamo ascoltato come un leader politico abbia citato la Sacra Scrittura per giustificare azioni militari abominevoli a danno di civili innocenti. Questo un esempio, sia pure estremo, di come non ci si sottomette a Dio, ma lo si usa per i propri fini. La Parola che dà salvezza viene qui deformata in parola di morte. Ci ricordi tutto questo la gravità dell’ipocrisia farisaica. La fede ci chiama prima di tutto ad “essere”; il “fare” ne viene come conseguenza, dunque dobbiamo mettere bene in ordine le priorità: il Maestro è uno, il Padre è uno, colui che ci guida è uno e noi siamo tutti fratelli, indipendentemente dal ministero che Cristo ci ha affidato.
La grandezza non la troveremo mai nel sentirci superiori a qualcun altro, ma nell’essere a servizio di tutti e allo stesso modo l’esaltazione sarà Dio a concederla secondo il suo criterio eterno che ci ha rivelato nell’umile Maria di Nazaret diventata la più grande tra le creature: guardando l’umiltà dei suoi servi.
Buona domenica!