“Che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?”. La domanda retorica di Gesù ci riporta con i piedi per terra, al fine di elevare i nostri desideri al cielo. La vita è un bene indisponibile, non la si ottiene per contratto, non la si può barattare, neanche in cambio del mondo intero. Casomai ciò fosse possibile quale vantaggio avremmo nel possedere tutto l’universo se per averlo rinunciassimo alla vita? Ovviamente esiste un tranello logico che si basa sull’idea distorta di vita piena e realizzata: possedere il più possibile in termini di ricchezza e potere genera un certo appagamento e la sua sensazione dà l’impressione di vivere un’esistenza degna di questo nome, che in effetti suscita invidia in chi ha meno.
Il presupposto di fondo è chiaramente la visione limitata e limitante di ciò che chiamiamo “vita”. In questa prospettiva “vita” è il segmento di tempo che trascorre tra il concepimento e la morte: prima non c’era nulla, dopo non ci sarà nulla, tutto va giocato nella breve parentesi che ci viene data (infatti non ce la prediamo da soli) su questa terra.
All’origine di ogni inquietudine, sia personale che sociale, sta questa ansia di realizzazione, cosa che in sé è impronta del nostro essere creature, ma anziché considerare la vita in prospettiva eterna, ciò che nel profondo della coscienza tutti possediamo, siamo tentati di vivere questi nostri pochi giorni come se non ci fosse una Pasqua personale che ci attende, come se non esistesse al termine dei propri anni la soglia esistenziale da varcare per accedere allo stato superiore della vita stessa.
Chi non vuole salvare la propria vita? Persino chi se la toglie volontariamente in fondo cerca una via di salvezza, una liberazione da una mancanza di senso, da uno stato di sofferenza insopportabile, dalla delusione, dalla paura, dal fallimento, ma in ogni caso anche il suicida non cerca la morte, bensì la vita, scegliendo l’unica via che ritiene possibile per porre fine al pesante disagio.
Tutti, insomma, cerchiamo salvezza e realizzazione; l’istinto alla vita è parte della nostra natura e ci chiama oltre la natura stessa e questa ricerca può avvenire fondamentalmente in due modi: il pensare “secondo Dio” oppure “secondo gli uomini”. La prospettiva “umana”, se isolata in sé stessa, è in realtà “disumana”; se la salvezza va cercata soltanto su questa terra si scatenano i desideri di accaparramento e di dominio, così l’uomo diventa lupo per gli altri, le amicizie si fanno interessate e l’altro, da fratello con cui condividere il cammino della vita, appare come il rivale da cui guardarsi.
Così si struttura nel mondo la legge del più forte, sia tra individui, sia tra stati, sia tra blocchi di nazioni e non può emergere neanche lontanamente un progetto comune di pace. “Va’ dietro a me, Satana!” dice Gesù a Pietro, che peraltro poco prima aveva elogiato per la sua fede; inizia a pensare la vita secondo Dio e non ridurti a ragionare secondo il pensiero comune.
“Dio non voglia, Signore” la passione che ci annunci non ti accadrà mai! Comprendiamo le buone intenzioni di Pietro: salvare la vita a Gesù; chi di noi al suo posto non avrebbe pensato lo stesso? Tuttavia nella ampia prospettiva del pensiero secondo Dio, il Calvario non era contro la vita, anzi ne sarebbe stata la sorgente, e la morte, con la sua inevitabilità assoluta, verrà ridotta a soglia per la vita eterna e piena. Per questo il Signore ci ammonisce: chi vuole salvare la propria vita sulla terra, la perderà, farà del male a sé stesso e agli altri, mentre il perdere la vita a causa del vangelo, il rinunciare al bene assoluto di questo mondo, farà sì che la troviamo in pienezza, una pienezza tale che al confronto il possedere il mondo intero non sarebbe che miseria.
Questa è la vita cui dobbiamo tendere, questa la vita per cui dobbiamo lavorare. Chi vuole conquistare il mondo, anche se ci riuscisse perderà sia il mondo, sia la pace, sia la vita; chi invece “va’ dietro” al Signore conquisterà il regno di Dio.