“Ricorda e cammina! Se recuperi il primo amore, lo stupore e la gioia dell’incontro con Dio, andrai avanti”. È l’invito che Papa Francesco fa a se’ stesso e a tutti i fedeli nell’omelia della Veglia di Pasqua, la Notte Santa, che presiede nella Basilica vaticana, accompagnato da quaranta cardinali, 25 vescovi e duecento sacerdoti. Perché, spiega, la Pasqua del Signore “invita a rotolare via i massi della delusione e della sfiducia” e “ci riporta al nostro passato di grazia, ci fa riandare in Galilea, là dov’è iniziata la nostra storia d’amore con Gesù”, quando “lo abbiamo proclamato Signore della nostra vita”. Infatti, per togliere la polvere depositata nei nostri cuori e “riprendere il cammino” non dobbiamo guardare “a un Gesù astratto, ideale, ma alla memoria viva, concreta e palpitante del primo incontro con Lui”.
Entrare nel cammino dei discepoli
Nella sua rilettura del Vangelo di Matteo sulla Resurrezione, offerta nell’omelia, Papa Francesco guarda al cammino delle donne, che alle prime luci dell’alba vanno verso la tomba di Gesù. “Avanzano incerte, smarrite – spiega – con il cuore lacerato dal dolore per quella morte che ha portato via l’Amato”. Ma, nel vedere la tomba vuota, “invertono la rotta, cambiano strada; abbandonano il sepolcro e corrono ad annunciare ai discepoli un percorso nuovo: Gesù è risorto e li attende in Galilea”. Così, chiarisce il Papa, “nella vita di queste donne è avvenuta la Pasqua, che significa passaggio”, e passano “dal mesto cammino verso il sepolcro alla gioiosa corsa verso i discepoli”, per dire che il Signore è risorto, ma anche che l’appuntamento col Risorto è in Galilea. “La rinascita dei discepoli, la risurrezione del loro cuore passa dalla Galilea”. Così Francesco invita tutti ad entrare “nel cammino dei discepoli che va dalla tomba alla Galilea”. Tutti, all’inizio, “pensano che Gesù si trovi nel luogo della morte e che tutto sia finito per sempre”.
A volte succede anche a noi di pensare che la gioia dell’incontro con Gesù appartenga al passato, mentre nel presente conosciamo soprattutto delle tombe sigillate: quelle delle nostre delusioni, delle nostre amarezze e della nostra sfiducia, quelle del “non c’è più niente da fare”, “le cose non cambieranno mai”, “meglio vivere alla giornata” perché “del domani non c’è certezza”.
Andare in Galilea vuol dire aprirsi alla missione
Quando il dolore ci ha attanagliato, spiega il Pontefice, o la tristezza, il peccato, il fallimento e la preoccupazione ci hanno assillato, anche noi “abbiamo sperimentato il gusto amaro della stanchezza e abbiamo visto spegnersi la gioia nel cuore”. Abbiamo avvertito “la fatica di portare avanti la quotidianità, stanchi di rischiare in prima persona davanti al muro di gomma di un mondo dove sembrano prevalere sempre le leggi del più furbo e del più forte”.
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