Sono i giorni del nostro destino, quando la terra intera risuona di un grido: grido di nostalgia. È la profonda malinconia del paradiso perduto, del Dio perduto, dell’amore e della pace perduti. La terra, con le sue spine e i suoi roveti, con le sue primule e i sempreverdi, con le sue stelle e, ogni tanto, la sua tenerezza; ma solo ogni tanto e furtivamente. E la sua crudeltà spesso, troppo spesso; e le sue lacrime, e i suoi singhiozzi. La terra è un immenso pianto.
E un giorno Dio non ha più sopportato, Dio non ha più potuto trattenersi. E allora ha raggiunto Adamo, ha cercato il sangue di Abele, e si è messo a gridare insieme ai suoi figli lo stesso grido di nostalgia, radicato nell’angoscia, radicato nel sangue e nell’amore: si è incarnato ed è salito sulla croce. Solo per essere con me e come me. Solo perché io possa essere con Lui e come Lui.
Essere in croce è ciò che Dio deve, nel suo amore, all’uomo che è in croce. L’amore conosce molti doveri. Ma il primo di questi doveri è di essere unito con l’amato. Solo un Dio sale sul legno ed entra nella morte perché là va ogni suo amato. Qualsiasi altro gesto ci avrebbe confermato in una falsa idea di Dio. Solo la croce toglie ogni dubbio. Qualunque uomo, se potesse, qualunque potente, se ne avesse la forza, scenderebbe dalla sua croce.
Solo un Dio non scende dal legno. È la genesi di Dio fra gli uomini. Il nostro è un Dio differente.
Questi sono i giorni della “vendetta” di Dio. Sublime vendetta, quando Dio si vendica di tutta la lontananza, di tutta la separazione, di tutta l’indifferenza degli uomini inventando la croce che innalza la terra, che avvicina il cielo, che riconcilia i quattro punti cardinali, crocevia che raccoglie tutte le nostre strade disperse, nodo a tutte le traversali del mondo. La croce è l’abisso dove Dio diviene l’amante.
“Ciò che ci fa credere è la croce” (Pascal). Ma ciò in cui crediamo è la vittoria della croce. Vittoria riportata sulla morte e chiamata Risurrezione. Ma in effetti ciò che ci fa credere è la croce. Il cristianesimo è nato dalla riflessione non sulla vita, ma sulla morte di Gesù. Il Golgota è il punto in cui si concentra e da cui emana tutto ciò che può riguardare la fede dei cristiani.
Oggi sarai con me in Paradiso. Gesù parla di uno spazio felice e immenso, lui che ha come spazio appena quel poco di legno e di terra che basta per morire. Parla del giardino senza notte di Adamo, di un sogno non contaminato ancora, dove tutte le creature saranno in armonia.
E mentre la nostra storia sembra avanzare per esclusioni e separazioni, la croce è la storia “altra” che non esclude nessuno, che avanza per riconciliazioni, alleanza con tutto ciò che vive sotto il grande arco del sole, e oltre.
Le braccia di Gesù, inchiodate e distese in un abbraccio che non può più rinnegarsi, che nessuno mai, che nessuna cosa mai annullerà, sono come le porte dell’Eden spalancate per sempre. L’angelo che sbarrava l’accesso ha riposto la sua spada di fuoco. Quelle braccia aperte sono l’immagine visiva della dilatazione del cuore di Cristo, cuore dilatato fino a lacerarsi, a lacerarsi ben prima del colpo di lancia. È la genesi dell’uomo in Dio. Perché ogni amato nasce dalla ferita del cuore di chi lo ama. L’uomo nasce dal cuore trafitto del suo creatore. Io nasco alla croce. “O battezzati nel sangue e nel fuoco,/ gente uscita dal cuore di Cristo” (D. M. Turoldo)
E capisco la vita: essa non è oggetto di possesso o di rapina, ma dono di sé. E quando cessi di trasmettere vita, in quel preciso istante tu la perdi, si dissecca in te la radice. E capisco che Dio e la vita sono dono reciproco di sé. Sento, con gioia, che spirituale e reale coincidono. Allora posso intonare, sottovoce e con emozione, il canto dei redenti: la croce è davvero la gloria della vita.
p. Ermes Ronchi