Siamo alla seconda Pasqua in tempo di pandemia. Quest’anno le porte delle chiese saranno aperte, anche se ancora dovremo limitare le presenze e prendere tante precauzioni. Tutti, però, avremo, in un modo o nell’altro, la possibilità di confrontarci con l’annuncio che da secoli accende la fede dei cristiani: «Gesù è risorto dai morti!», «È il Signore!», «È il Vivente, il Veniente, il Giudice dei vivi e dei morti, che un giorno verrà nella gloria e il Suo regno non avrà fine».
Sono le parole essenziali del Vangelo, il cosiddetto kerigma, ossia la proclamazione di cui ogni battezzato deve farsi testimone, con la sua vita prima ancora che con le sue parole. È giusto che esse siano state ritualizzate e stilizzate. Non si può correre il rischio che esse vengano trascurate, marginalizzate o addirittura dimenticate. Ricordiamo tutti, a tale proposito, il monito dell’apostolo Paolo nella sua prima lettera ai cristiani di Corinto: «Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. Noi poi risultiamo falsi testimoni di Dio… se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati… Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (1 Cor 15,14-19).
Tuttavia, proprio queste stesse affermazioni ci provocano. La fede pasquale non va solo ribadita verbalmente, con convinzione e sincerità, durante il momento celebrativo. La linfa vitale di cui è portatrice preme in noi per diffondersi in ogni aspetto del nostro quotidiano, per giungere a dare forma nuova alla nostra esistenza corporea, alle nostre relazioni con noi stessi, con gli altri, con Dio, con l’intera creazione di cui ci nutriamo e sosteniamo e di cui siamo per vocazione i custodi e i promotori. Tutto questo, infatti, è marcato in maniera evidente dalla nostra coscienza, più o meno esplicita, di essere mortali, limitati e fragili, che ci porta a pensare, progettare e mettere in atto un mondo dominato dalla paura di dover morire, dall’ansia di poterci ammalare, dal terrore di dover invecchiare e soffrire. Ma la consapevolezza nuova che s’insinua nel cuore umano a Pasqua non può depositarsi in maniera inerte dentro di noi. Va accolta come fermento, come energia operativa a nostra disposizione per cominciare a far trasparire una differenza nel modo banale e ordinario di vivere umanamente su questa terra.
Sono convinto che, soprattutto nel tempo di travaglio mondiale che stiamo attraversando, è fondamentale che non si faccia riferimento alla Pasqua del Signore solo per ricavarne un messaggio per sostenerci nei momenti della difficoltà, della malattia, del lutto dei nostri cari. Questo rimane certamente legittimo e vitale e, in questo periodo, è stato davvero preziosa la presenza accanto a malati e familiari di testimoni della fedeltà dell’amore di Dio anche nelle circostanze più avverse e umanamente sconvolgenti. Penso ai cappellani dei nostri ospedali, al personale sanitario, ai molti volontari tuttora mobilitati per alleviare le sofferenze dei più fragili. L’aspetto palliativo non può, però, esaurire la potenza dell’evento pasquale, che è in primo luogo la Sorgente inesauribile di un approccio nuovo all’esistenza e non solo ai suoi aspetti problematici e contraddittori.
Risuscitando Gesù dai morti, infatti, Dio ha ripreso l’ultima parola sulla vita. Ha tolto dai nostri cuori il sospetto e l’incertezza, provocati in noi dal dolore e dalla morte, riguardo alle promesse legate al nostro essere venuti al mondo, alla bellezza evocata dalla natura e alle meraviglie del nostro corpo, dalla gioia degli incontri, dall’emozione degli sguardi, degli abbracci, dello stare insieme. Se Cristo è risorto dai morti, le nostre rappresentazioni di felicità, di vita piena, d’intensità e di forza, non sono da deridere, da maledire, da condannare o da spegnere. Sono semplicemente destinate a morire, a crollare nella loro costruzione transitoria, per rivelare la loro permanente verità, inizialmente nascosta, ma reale e non menzognera.
Non siamo fatti per la morte. La nostra esistenza non è solo un prodotto suggestivo ma anche ingannevole dell’evoluzione. Non è il gioco perverso di un demiurgo cattivo che si è divertito a produrci con un programma di autodistruzione incorporato. La nostra vita è una chiamata e un invito permanente a lasciarci alle spalle la tristezza, la crudeltà, la rabbia e la disperazione, per andare in ogni momento verso la Luce. È un passare dallo sforzo immane per stare in vita, lottando contro tutto e contro tutti, al vivere veramente, nella libertà e per amore.
Fin qui deve arrivare il nostro Alleluia ritrovato di quest’anno: fino a far rinascere in noi la fiducia radicale nella Parola della vita. Appare a Pasqua, nel Crocifisso-Risorto, e diventa annuncio di gioia per tutti, ciò che a Natale s’intuisce nella promessa di un bambino appena nato: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta… Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo». Se Cristo è vivo, è perché noi possiamo ogni giorno diventare sempre più vivi in Lui, perché nessun ragionamento umano ci porti a rinchiuderci in un’ideologia di morte. Possiamo stare fuori sia dal martellante pensiero unico che cerca di appiattire ogni differenza, sia dagli sterili complottismi fondamentalisti che illudono di poter spiegare tutto. C’è sempre spazio per vivere umanamente, piuttosto che rinunciare a vivere per delusione. Anche nei confusi tempi di pandemia, i nostri cuori, illuminati da Cristo risorto, potranno pensare e discernere il meglio, la Via dell’umanità amata da Dio nel chiaroscuro della storia, e trovare conferma, nel concreto dell’esperienza di ogni giorno, che dove c’è più gioia, c’è più verità.
di Valerio Lazzeri, vescovo di Lugano